Ecco i vincitori della terza edizione della borsa di studio di ESN Italia "Il Tuo Erasmus con ESN".


Vincono la borsa di studio da 500€



Sofia Calabrese - Università degli studi di Milano



Bianca Patria - Università degli Studi di Pisa



Annamaria Giaretta - Università degli Studi di Trento 

André Francisco Araùjo Silva - Università degli Studi di Parma


Sofia Calabrese - Università degli studi di Milano

Chi ha paura dell’Unione Europea?

L’idea di un’Unione di stati europei o, per utilizzare un’espressione giornalistica e un po’ riduttiva, ma molto antica, quella degli “Stati Uniti d’Europa”, affonda le sue radici in tempi remoti e si basa su presupposti differenti da quelli a fondamento degli Stati Uniti d’America, pur richiamati dall’espressione sopra ricordata. Qualcuno infatti vedrebbe già in Kant e nella sua “Pace Perpetua” quel progetto ideale che richiamerebbe da vicino quello più recente dell’Unione Europea. Non solo, anche molti scrittori, da Victor Hugo a Goethe, di fronte alle guerre che dilaniarono per secoli il continente europeo, auspicarono allo stesso modo un’unione tra stati, ma soprattutto tra popoli, espressione quest’ultima, con la quale si vuole indicare un vero e proprio processo di condivisione e integrazione culturale che trascende il trattato internazionale e l’accordo politico. Non tutti sanno, ed è bene ricordarlo, che la stessa Unione Europea, nacque da un progetto non poi così dissimile da quelli di filosofi e scrittori, che saremmo portati a tacciare come pure utopie. Robert Schumann infatti, uno dei padri fondatori dell’Unione Europea, mirava alla realizzazione di un’unità politica e culturale, prima ancora che economica. Troppo spesso flsi sente parlare di una Comunità Europea nata per motivazioni schiettamente economiche e poi in qualche modo degenerata in un’unione politica forzosamente imposta dall’alto. In realtà tale evoluzione scaturisce da una geniale intuizione di Schumann, il quale capì che quel sogno di un’unione tra popoli – un sogno non così dissimile dunque dalla kantiana pace perpetua – poteva essere realizzato solo per gradi, attraverso successive cessioni di sovranità, di modo che i singoli stati e soprattutto i cittadini che ci abitavano, potessero fermarsi di volta in volta una vera e propria identità europea.

Cos’è rimasto oggi di quel progetto così ambizioso, sulla carta a uno stadio avanzato, ma che nei fatti non gode di buona salute?

La cosiddetta “ondata euroscettica” sembra diffondersi sempre più negli stati europei e l’Europa stessa, da sogno utopico, è diventata nell’immaginario collettivo simbolo di oppressione economica, politica e burocratica. Cos’è successo dunque dal secondo dopoguerra ad oggi?

La questione è naturalmente complessa, né questa è la sede per un’analisi approfondita delle glorie e delle sconfitte dell’Unione Europea.

Due sono però gli aspetti che balzano immediatamente all’occhio.

Innanzitutto le circostanze peculiari in cui è stato elaborato il progetto europeo, circostanze ben lontane da quelle odierne. Era il secondo dopoguerra e gli stati europei si riprendevano faticosamente da quella stagione di orrori che era stato il primo ‘900, orrori ancora vivi davanti agli occhi di ciascun uomo dell’epoca, partoriti da guerre che, da buona europea, non esiterei a definire fratricide. Eppure, per strano che possa sembrare, è in situazioni di miseria che nasce la solidarietà perché fa nascere uno dei sentimenti più inspiegabilmente umani: l’empatia. Esempio lampante ne è un caso che ci tocca da vicino: l’accoglienza dei migranti in Italia – e in Europa – tanto contestata in regioni ricche come la Lombardia e il Veneto – nonché nella stessa Francia – sta invece funzionando in Sardegna, nella provincia più povera d’Italia, grazie all’aiuto dell’intera comunità. Perché? Perché si è solidali quando ci si sente simili e di conseguenza si è in grado di empatizzare con le disgrazie o le gioie altrui. Chi ha trovato la stabilità, al contrario, si sente diverso e non è disposto a rinunciare a nulla di ciò che ha guadagnato per muoversi incontro al diverso. L’euro-scetticismo è un aspetto di questo problema: la volontà di mantenere il proprio status senza rinunce perché non vi è alcuna emergenza che unisca. Le stesse politiche del governo tedesco, tanto criticato, mirano al mantenimento di un benessere al quale – ed è comprensibile – non si vuole rinunciare.

Sotto un secondo aspetto, se il benessere ha evidenziato a tal punto le diversità, al punto di temerle, è forse segno che si sono bruciate le tappe. Non solo, lo si è fatto partendo da un presupposto rischioso: quello di un’unione politica fondata dagli stati per gli stati e non dai popoli per i popoli. L’unione prospettata da Schumann sarà davvero possibile solo quando l’identità europea sarà qualcosa di concreto – e non parole al vento – per ogni singolo cittadino – o per la maggioranza di essi, quanto meno. Quando ci sentiremo simili – pur non essendolo, da notare – una raccolta fondi per uno stato in crisi non sarà più una notizia eccezionale, da riportare con stupore sui quotidiani, ma un normale impulso verso il paese vicino, che sarà un po’ anche il nostro.

E’ proprio qui che entrano in gioco i progetti di mobilità internazionale ed europea, primo fra tutti l’Erasmus. Progetti simili non si limitano a essere “una vacanza” – come alcuni insinuano con spregio – o un’esperienza di cui vantarsi sul curriculum.

L’aspetto più rilevante è quello della formazione personale, grazie alla possibilità di conoscere da vicino non uno Stato, non una nazione, ma i suoi singoli abitanti. Aspetto che in una dimensione più ampia come quella della sempre più diffusa partecipazione a questi programmi, ha davvero qualche chance di cambiare il modo di percepire le differenze in Europa, formando una generazione di poliglotti a proprio agio in qualunque contesto culturale, perché non spaventati dalla diversità.

Da ex borsista di AFS Intercultura, in Russia per un anno nell’ormai lontano 2011/2012, alla tenera età di diciassette anni, non posso che ricordare il motto dell’associazione “Incontri che cambiano il mondo”, motto che acquista un significato concreto nelle parole di mio padre ospitante, un uomo siberiano che sfiorava i due metri d’altezza, dopo qualche bicchierino di vodka di troppo: “Sono gli incontri tra persone comuni come me e te, e non gli accordi politici, che fanno sperare di poter cambiare qualcosa nel mondo. Tutti in Europa hanno paura della Russia. Tu non più, non è vero?”.

Era vero. Non ne avevo e non ne ho più avuta. Perché, per quanto complessa possa essere, sento di capire almeno in minima parte il modo di pensare dello straordinario popolo russo.

E in Europa? Allo stesso modo l’Erasmus potrebbe essere la chiave di volta per un profondo cambiamento culturale che scacci paure e pregiudizi attraverso la comprensione reciproca, e non la cancellazione delle differenze. Scambio all’estero significa imparare a smettere di usare la propria identità come filtro per giudicare le altre pur non perdendola. Possibile? Per quanto difficile, alla luce della mia esperienza, sono convinta di sì. L’unico modo di raggiungere tale stato mentale è però quello di partire e vivere in un altro paese, a stretto contatto con le persone “normali” del posto, come saggiamente ricordato dal mio padre ospitante.

E forse, quando avremo raggiunto tale grado di coesione, lì per lì nemmeno ce ne renderemo conto, tanto ci sembrerà normale. Eppure l’epifania ci coglierà lo stesso, quando meno ce lo aspettiamo: quando un’italiana, un tedesco e un francese, parlando con un tailandese, un brasiliano e un americano – no, non è una barzelletta- si accorgeranno di essere più simili di quanto non si aspettassero, pur nella diversità. E allora potremo annunciare davvero, con il sorriso sulle labbra: benvenuti in Europa.

 


Bianca Patria - Università degli Studi di Pisa

Quello di viaggiare per piacere, per conoscere, per raggiungere i luoghi lontani dei quali si è sentito favoleggiare da bambini o si è letto avidamente nei romanzi dell’adolescenza, è un lusso che fino ad appena qualche decennio fa in pochissimi potevano permettersi. La gioventù europea di buona famiglia e di vaste possibilità economiche comincia solo nel corso del XVIII sec. a concedersi il piacere del Grand Tour, partendo per lunghi viaggi alla scoperta dei tanti cuori della Vecchia Europa.

Londra, i ponti sul Tamigi, con la sua storia grigia di conquiste e di assedi; piccola regina fluviale di un impero marino. Le mura dei suoi castelli avevano scorto con preoccupazione l’orizzonte, vedendo giungere dal mare invasioni, saccheggi, monaci e pirati. E ora su sette mari corrono le rapide galette dei mercanti e dei corsari inglesi. Nel brulicare instancabile dei suoi vicoli sporchi, sotto una pioggia fine, si prepara lentamente il volto della nuova città, annerita dal fumo delle ciminiere e percorsa dal frenetico passo degli operai.

Parigi, che nei suoi viali, nell’indolenza dei caffè affollati da studenti, musicisti e giovani scrittori ambiziosi, nel fumo azzurro dei suoi mille sigari, nel vetro opaco dei mille bicchieri e delle verdi bottiglie, rende insonni e vagabondi i giovani rampolli d’ Europa. Li rende filosofi e ubriaconi, persi e sedotti come sono da compiaciuta intemperanza dei suoi artisti, dalla vivacità dei suoi circoli, dall’affabilità dei suoi intellettuali, dalla libertà delle sue donne.

E infine il Mediterraneo, da Gibilterra ad Alessandria, dalla Costa Azzurra fino all’Asia Minore, che come l’ampio grembo d’Europa accoglie e abbaglia nel calore scintillante della sua distesa azzurra e placida quei giovani stranieri pallidi, stanchi per il viaggio, vinti dal sole. La Grecia e l’Italia, dove il germoglio della cultura europea per primo aveva attecchito, suscitavano nei poeti d’Inghilterra e di Germani, incantati dalle possenti rovine di un passato grandioso, quel senso di adorazione e di timore che si deve a qualcosa di antico e di venerabile. E quelle acque blu scuro, così diverse dalla distesa grigia e caliginosa del Baltico o dalla massa livida, fredda e inquieta dell’Atlantico, erano state solcate dalle prore nere di pece di ogni genere di navi fenice dalle ampie stive, navi egiziane dalle vele bianche, navi rapide dei mercanti saraceni.

Perfino oggi quel mare chiuso stenta a dividere, a fatica si erge a confine di paesi che, da sempre vicini, su quel mare sembrano due facce di una stessa medagli, le due sponde della stessa acqua. I confini degli uomini non possono esser letti tra le righe dei trattati di pace o nelle clausole degli accordi economici. Li si deve cercare nei contatti che si intrecciano lentamente, in una consuetudine lenta e complessa, fatta di asprezze e di avvicinamenti.

Per questo motivo il processo di integrazione europea è un progetto culturale difficile e lento. Non può essere costruito solamente su basi economiche e realizzarsi in rapporti di forza. Le terre d’Europa sono tutte percorse come da una ragnatela di divisioni e di differenze, che come tante rughe in più, meno profonde segnano e marcano il suo volto antico. Questi segni sono ciò che la rende ricca e venerabile, mai esausta, ma sempre fertile. E queste differenze costituiscono il patrimonio anche dei paesi economicamente più svantaggiati. I nuovi rapporti stabiliti tra i membri dell’UE non possono risolversi nell’imposizione di un regolamentarismo cieco che appiani ogni dislivello, cancellando, però, le peculiarità. L’idea di un’Europa profondamente diversa, ma disposta a riconoscere, a rispettare, a comprendere le molte voci che la animano solo superando un’integrazione che troppo a lungo è rimasta solamente economica, si potranno superare le spinte centrifughe e le reazioni degli euroscettici, alimentate da quegli episodi che hanno fatto emergere lo stato ancora traballante e imperfetto della costruzione europea.

I confini, ma anche i contatti fra gli uomini e fra i Paesi sono fatti di consuetudini, storie, esperienze- non solo di scambi economici. E forse proprio per questo motivo quell’idea originaria di UE trova la sua forma più piena e positiva proprio nel progetto Erasmus.

Se fino a poco tempo fa solo pochi potevano viaggiare per piacere e se, in altri luoghi del mondo, ancora oggi si viaggia solo per guadagno o per fuggire la fame, la miseria, la guerra, per i giovani europei di oggi questa opportunità è diventata naturale, come il diritto di studio e all’istruzione.

Grazie a questo progetto ciò che per secoli ha rappresentato un ostacolo – le differenze sociali, economiche, di genere, di religione – è stato superato, ciò che divideva ha davvero unito.

L’Erasmus rappresenta in nuce l’esperienza vissuta – che migliaia di giovani europei del futuro, che non sono segnati da grandi divisioni che ancora dilaniano alcune parti del continente europeo, affinché da qualcosa di antico possa nascere, ancora una volta, qualcosa di profondamente nuovo.


André Francisco Araùjo Silva - Università degli Studi di Parma

Cara Ida,

fra alcuni giorni finalmente sarò a casa. Mi manca quel sorriso sghembo che mi facevi sempre dalla porta di casa e se ci penso il tragitto a piedi da Palermo al Nord Italia sembra solo una passeggiata. Come stai cara? I bambini crescono bene?

Io stamattina non sto male, mi è capitato qualcosa di bello anche durante questo viaggio. Ieri avanzavo verso casa dopo aver attraversato un fiume con una barchetta trovata a riva, quando, girandomi, ho visto alle mie spalle un gruppetto di soldati. Erano biondicci, dall’aria malconcia, giovani forse più di me e dalla parlata inequivocabile: erano tedeschi. Probabilmente erano stanziati in zona quando è stato dichiarato l’armistizio e avevano disertato per cercare di tornare a casa.

In quel momento mi sono tornate in mente tutte le cose terribili che mi avevi raccontato sul loro passaggio in paese, le fucilazioni, la povera Gina con il figlio decapitato. Non ho potuto impedire che un fremito di rabbia mi irrigidisse la mano sul fucile che portavo ancora in spalla, ma, prima di prenderlo, li ho guardati: avevano i miei stessi occhi stanchi e spaventati, occhi di ragazzi che come me non avevano mai voluto combattere. Quelli non erano i mostri che avevano insanguinato le nostre strade, era gente comune inghiottita da una frenesia di guerra. In quel momento mi sono chiesto come fossimo finiti lì, prima una guerra, poi un’altra e nazioni nate e cresciute fianco a fianco che si sbranavano l’un l’altra continuamente. Mi sono chiesto se fosse possibile un mondo dove la nazioni non si guardassero solo in casa, pronte a dar fuoco al mondo pur di ingrandirsi le terre di qualche millimetro, ma in cui ognuno si rendesse conto del proprio vicino e lo conoscesse e se ne prendesse cura, come facciamo noi in paese.

Tu dici che sono un sognatore, ma io ricordo ancora quando andammo a visitare Zia Carla in Francia o venne la Maria dalla Germania e quando prima della nazione ti chiedevano il nome. Le ho sognate ieri sera, Ida, ho sognato che mangiavamo la polenta con loro e con i soldati disertori. Eravamo tutti a tavola a nostro agio e la Maria ti insegnava a fare i krapfen mentre alla radio leggevano “I Malavoglia”.

Li ho aiutati ad attraversare. Remando avanti e indietro ne ho presi su due tre per volta, finché non furono tutti a riva. Mi è piaciuto immaginare che ritornassero da donne dal sorriso sghembo che porteranno con loro fra alcuni anni quando verranno per la polenta.

Ogni giorno mi avvicino a te.

Il tuo Regolo

 

Cara Nonna,

sono già passati tre mesi dalla mia partenza per l’Erasmus. Mi mancate tutti, ho paura, non riconoscerò nemmeno più la piccola al mio ritorno, ma qua mi sento stranamente a casa. Non è una nuova sensazione, solo non pensavo di trovarla qua: mi sento come dopo i primi tempi in Italia, con quel filo teso che mi legava al Brasile, ma con la sensazione di qualcosa di intimo che si attorcigliava per sempre a quella nuova casa. A volte quando ero più piccolo sentivo di non appartenere a nessun posto in particolare, ma solo qua ho capito di saper ritrovare un frammento di me in ogni luogo che incontro, da appartenere alle persone. Oggi pensavo alla gioia del nonno quando gli ho detto mesi fa di essere stato scelto per questo viaggio, che gli studenti di tutta Europa possono conoscersi, studiare per alcuni mesi in un altro stato, vedere culture diverse. Era quasi più felice di me e ha disarmato le mie paure di sentirmi fuori posto, di non essere accettato. Penso a lui quando esco a cena con i miei nuovi amici, lui a cui la parola Erasmus illuminava lo sguardo, che l’aveva sognata ancora prima dei capi di stato. Perché scopro che è solo questo il cuore dell’Europa, nonna: le persone.

Anche per la mia carriera universitaria questa si sta rivelando un’opportunità unica, non ne ho mai abbastanza di parlare di teatro e sono felice di saper rappresentare bene l’Italia quando si parla di Commedia dell’Arte e di Pirandello. È incredibile la varietà di storie e persone che incontro qui, ma ancora più sorprendente è la nostra comune passione per la recitazione. Sono sicuro che manterrò i contatti con molti di loro e, chissà, un giorno riusciremo a stabilire una collaborazione internazionale…

Quasi dimenticavo, devo raccontarti qualcosa di buffo: l’altra sera ho provato a fare la polenta! Purtroppo non è stato un grande successo (colpa delle mie scarse abilità culinarie), ma sono sicuro che se mi insegnerai tu quando sarò tornato a casa, i miei amici francesi, la prossima volta, leccheranno il piatto!

Vi penso ogni giorno

Un abbraccio forte

André

 


Annamaria Giaretta - Università degli Studi di Trento

El amanecer

Vivere senza conoscere un’altra lingua,

C’est la prison.

Vivere senza assaporare un altro paese,

That’s the jail!

Vivere senza portare dentro di un’altra cultura,

Ces el càrcel.

 

No, queste non erano parole di Alba. Erano versi che lessi piano dalle sue labbra. Versi di un poeta africano che, sei mesi prima di quell mattino, lei non aveva mai udito. Era partita pensando di poter portare con sè la sua incontaminabile cultura. Povera illusa, illusa come l’hybiscus che si fa non bello, ma splendido, pensando di poter vivere più di un giorno e che si arrampica ancora sui muri di qualche casa a Granada. Hassan, un giorno, le aveva regalato questo fiore. Lo stesso ragazzo che le aveva insegnato I versi ripetuti da lei quel mattino.

Hassan era stata la scoperta del suo Ersmus. Nato in Marocco e giunto in Spagna attraverso Ceuta, quando ancora non era protetta da un filo spinato segnante il confine della fortezza Europa, Hassan le aveva fatto conoscere ogni angolo di Granada.

Alba quel mattino pensò a lungo a come per lei quella città fosse il simbolo dell’Unione Europea, la rappresentazione del suo motto “uniti nella diversità”. Ed io non potevo far altro che riflettere i suoi pensieri. Granada è sempre stata conscia di essere stata un tempo modello di convivenza pacifica nella diversità.

E lo ricordano anche il suo Generalife, esteso fino alle montagne, La Alhambra, nella sua maestosa bellezza. Lo ricorda persino il vento secco che, come uno schiaffo, la colpisce gran parte dell’anno.

¡Granada es una Europe Pequeñita!

Certo, Alba non era del tutto convinta che la libera circolazione dei mezzi, dei capitali, dei servizi avesse reso gli Stati membri dell’unione più ricchi. Non era convinta che la Politica Estera e di Sicurezza Comune avesse reso la vita negli Stati più sicura. Non era convinta che le competenze in materia di Giustizia e Affari Interni avessero garantito, negli Stati, maggiore giustizia.

Tuttavia, quel mattino, ripensando alla sua esperienza, ormai giunta al traguardo, era convinta che il progetto politico comunitario avesse posto gli Stati l’uno di fronte all’altro, non armati a combattersi, bensì a dialogare; ad imitarsi nelle best practices e a correggersi nelle debolezze.

Era convinta soprattutto che la Libera Circolazione delle persone avesse segnato in modo irreversibile il territorio dell’Unione. Essa era ormai per Alba un territorio di legami, di relazioni, formatesi in modo naturale, senza la consapevolezza di quanto fossero debitrici del progetto europeo. Questo, infatti, aveva stravolto non solo gli Stati, ma ogni loro singolo cittadino. Aveva fatto di loro, prima di tutto, cittadini Europei.

Era per questo che Hassan ammirava l’idea sottesa all’Unione Europea. Ed Alba aveva imparato a farlo con lui. Hassan le aveva persino fatto incontrare la memoria di Federico Garcia Lorca, incisa per sempre nei suoi scritti e sepolta in parte “debajo de la tierra” andalusa, la terra detta un tempo Al-Andaluz dai mori. Lorca, in un’intervista poco prima di morire, aveva affermato con vigore che la sua vocazione era cantare “a España”, perché la sentiva “hasta la medula” e che, tuttavia, non riusciva a non sentirsi, prima di tutto, cittadino del mondo “y hermano de todes”.

In tali parole Alba aveva scoperto e riconosciuto la valenza del progetto europeo, il senso di definirsi, ancora, “cittadini europei”. Perché non siamo noi a superare barriere e confini, ma sono questi a superare noi. Perché è la capacità di convivere nella diversità a determinare la nostra forza.

Alba, in cuor suo, aveva compreso che senza l’Unione Europea quell’esperienza, quei pochi mesi che erano riusciti a travolgere la sua intera vita, non avrebbe nemmeno potuto sognarli.

Ormai sarebbe stato riduttivo per lei definirsi solo italiana, nonostante la sua carta d’identità non aggiungesse ulteriore indicazione.

Come sarebbe stato riduttivo per l’avvocato trentino che presenziava anche in udienze tenute in tribunali austriaci, o per il medico pugliese che da anni salvava vite negli ospedali danesi, definirsi semplicemente lavoratori italiani, nonostante il loro diploma di laurea fosse stato stampato in un’italianissima copisteria, di fronte ad un italianissimo ateneo.

Alba aveva capito che l’unione, volente o meno, aveva regalato ai suoi abitanti maggiori possibilità, colpendo l’obiettivo implicito che ogni apparato che si atteggi a Stato dovrebbe avere: assicurare un benessere sempre maggiore ai suoi cittadini.

Granada le aveva regalato la possibilità di appoggiare lo sguardo sulle sue architetture arabeggianti, di rubare la memoria dei suoi colori e dei suoi profumi. Ma le aveva permesso di entrare anche “en las zapatas” di un popolo diverso, di sentirsi a casa nonostante la distanza.

Ciò che Alba, per ironia della sorte, adorava di più di Granada era “su amanecer”. Il momento in cui il sole si faceva spazio a fatica nel cielo, quasi dovesse arrampicarsi sui suoi muri. La mezala di colori, punta dalle cime delle montagne sullo sfondo era una delle cose più belle che avesse mai visto.

Per questo aveva voluto partire all’alba, per serbarla come ultimo ricordo di questa Europa in miniatura. E non importava che quel giorno il cielo appena sveglio di fronte ai suoi occhi fosse graffiato dai ferri paralleli alle rotaie dei treni. Era bellissimo lo stesso, ed Alba ne era convinta.

O per lo meno questo è ciò che lessi io nei suoi occhi quel mattino. Ma potrei sbagliarmi, ne vedo così tanti pieni di lacrime lasciare questa città che non so più interpretarli. Ma nel caso di Alba non credo di sbagliarmi.  Alba è tornata, è tornata a riabbracciare Hassan, colui che, con un occhio esterno, le aveva fatto comprendere le potenzialità del progetto europeo. E’ tornata a  riempirsi di nuovo gli occhi delle meraviglie che regala questa città.

Conservo la sua storia, insieme a tante altre, con orgoglio e un po’ di tenerezza. Dopotutto questo è un po’ il mio mestiere: non sono nulla di più che l’asta d’acciaio, saldata con tenacia ad una delle colonne del binario n° 1 della stazione dei treni di Granada, che sostiene la bandiera dell’Unione Europea, fin dal 7 Febbraio 1992.