Se è vero che “siamo ciò che mangiamo” (Feuerbach), possiamo dire lo stesso anche del mangiare il cibo tipico da cui proveniamo? È la cultura che influenza le nostre abitudini alimentari o, in questo nuovo decennio, possiamo parlare di persone che influenzano i nostri stili di vita? Vivere in un Paese straniero per un periodo di studio o lavoro cambia la percezione che abbiamo della cucina?

È la cultura di massa a dirci cosa dobbiamo mangiare, quando e perché? 

Al giorno d’oggi, è abbastanza comune fare colazione all’italiana, pranzare al sushi, bere un aperitivo stuzzicando panzerottini, olive ascolane e pizzette, cenare al messicano, come la società che siamo: cosmopolita, frutto della globalizzazione. 

Ci piace provare nuove sensazioni, assaggiare nuovi sapori, valutare ed esprimerci, però ci sono costanti che restano stabili nella nostra italianità. Per cucinare usiamo solo olio d’oliva, pasteggiamo con vino delle nostre zone, non esiste in nessun modo non ritagliarsi cinque minuti per un buon caffè. Quelli che a un occhio esterno potrebbero sembrare stereotipi non sono altro che i fattori descrittori della nostra cultura culinaria. Sono i nostri nonni ad averci insegnato a sedersi a tavola insieme e mangiare con calma, senza correre, senza questi telefoni rumorosi. Siamo i fan dello Slowfood anche quando mangiamo nei fastfood, non sappiamo mordere un panino in piedi e se lo facciamo non ci sembra nemmeno di aver pranzato come si deve.

Tutti questi elementi formano la nostra cultura e, di conseguenza, influenzano le nostre abitudini alimentari. Ci piace seguire una dieta mediterranea, ma allo stesso tempo, per esempio, usiamo le spezie e reinventiamo piatti che ci sembrano desueti. Spezie che vengono da Paesi come l’India, l’Iran o l’Egitto. E le usiamo perché l’abbiamo visto sui social, o le abbiamo provate nei nostri viaggi e ci sono rimaste impresse, perché le abbiamo associate ai colori, ai rumori, ai sapori di quel Paese, e un po’ ci piace ricordarlo in questo modo. Alla fine, la cucina altro non è che un’arte alla pari di scultura, pittura e scrittura, per citarne tre, e l’arte sicuramente non ci serve per vivere ma per sentirci vivi, ispirati, eccitati, del resto “Il giorno in cui il cibo perderà la sua storia e il suo valore non ci sarà più speranza per nulla”. (Carlo Petrini, gastronomo, fondatore dello SlowFood)

Possiamo concludere dicendo che sicuramente la nostra cultura influenza le nostre abitudini alimentari, che il nostro stile di vita influenza la percezione che abbiamo del cibo e il rapporto che abbiamo con esso. 

Sicuramente, anche i social hanno contribuito a questa nuova, globalizzata percezione in una maniera che fino a qualche anno fa non si credeva possibile, ciò nonostante stiamo riuscendo perfettamente a conservare le nostre tradizioni a tavola anche se con un tocco un po’ più fusion, ma del resto, alla fine “ho una storia d’amore con la pizza… diciamo che è una specie di pane, amore e carboidrati” (dal film Mangia, Prega, Ama), un po’ come ogni Erasmus in Italia che si innamora della cucina italiana ma non rinuncerebbe mai alle sue tradizioni, le esporterebbe per estrarre il meglio dei nostri sapori e fonderli con i suoi.

Giuliana M.